Giuseppe Calasanzio e la sua Opera

Ernesto Balducci d. S.P.[1]

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Istituti come questo, nella loro stessa forma e per il fatto stesso che chi viene a ricercarvi le tracce della sua infanzia ha quasi sempre i capelli bianchi, sembrano soprattutto emblemi di un passato grande.

Dobbiamo invece interrogarli per sentire quale promessa e quale auspicio da loro viene per l’avvenire.

Io vorrei essere semplicemente in un discorso che sarà molto più dimesso di come intendevo farlo qualche giorno fa, vorrei essere la guida per voi, in questo momento, per una serena meditazione. Una meditazione, intendo dire, che tutti noi che siamo figli del Calasanzio, dobbiamo fare: noi scolopi dobbiamo abituarci a queste riflessioni, senza addormentarci nelle tradizioni e continuarle passivamente: solo rinnovando si conserva. Tutte le istituzioni sono storicamente decadute, quando non hanno un contenuto che sia permanente.

Le forme passano, le istituzioni crollano, non ci vuole il genio di Vico, per sapere questo; basta la constatazione della cronaca. Tutto passa. Quando però le istituzioni hanno come loro contenuto e come loro centro generatore dei valori che non passano, allora nemmeno le istituzioni passano, a condizione che gli uomini che le rappresentano, siano fedeli a quei valori. Altrimenti si realizza un tradimento storico che fa sì che crollino le istituzioni, mentre i valori restano.

Prolusione, forse un pochino magniloquente, che voleva semmai sottolineare l’importanza dell’impostazione, che io intendo dare a questa mia meditazione.

Mi è stato richiesto di parlare di San Giuseppe Calasanzio e della sua Opera, e parlo subito di S. Giuseppe Calasanzio. Intendo subito giustificare il mio tono, che non sarà panegirico, né di accademico discorso.

Quando si parla dei Santi non si possono fare accademie. Si possono fare accademie sulla Repubblica Italiana, si possono fare accademie sulle origini della nostra cultura occidentale, ma non si può far accademia su un Santo.

A meno che non l’abbiamo camuffato con le maschere delle nostre false devozioni. Il Santo è sempre un termine di raffronto pauroso e noi, proprio perché è pauroso, a volte cerchiamo di modificarlo ed abbassarlo alla nostra meschina misura. Ma allora noi pecchiamo di un qualche intimo sacrilegio.

La santità di Giuseppe Calasanzio, come ogni santità del resto, ha una sua attualità e quindi un suo messaggio da porgere alla nostra coscienza: e noi non dobbiamo rifiutarlo, perché, a differenza di ogni altro grande uomo della storia, il Santo ha le sue radici nell’eternità. E ci insisto in questo, anche perché è un criterio educativo di somma importanza: siamo troppo facili ad accostare gli eroi e i poeti ai Santi. Gli eroi e i poeti sono anch’essi, sì, alla confluenza fra il tempo e l’eternità, ma, mentre gli eroi e i poeti costruiscono la loro grandezza sulla linea del tempo, il Santo la costruisce su quella dell’eternità; e la linea del tempo è mobile, l’eternità resta.  Quindi il Santo appartiene a una specie nuova, alla specie degli immortali, e tutti noi, nella misura in cui viviamo la vita del Cristianesimo, ci emancipiamo dal tempo e superiamo ogni altra grandezza: il più piccolo del regno di Dio è più grande del più grande poeta della storia umana.

Il Santo è colui che ha costruito la sua grandezza sulla linea dell’eternità, però facendo tangente col tempo. Un grande esploratore delle esperienze mistiche, Bergson, trovava come elemento caratteristico del Santo cristiano questo suo sapersi inserire nella storia. I mistici orientali, hanno realizzato ascensioni spirituali veramente grandiose, ma la loro ascensione era direttamente proporzionata al loro isolamento storico. Il Santo cristiano, nel momento stesso in cui attinge il vertice della sua intima elevazione, viene, per così dire, riscagliato nella storia. E allora la storia subisce, per merito dei Santi, un’intima trasformazione; si potrebbe fare, senza violare la realtà oggettiva, una storia della nostra grande civiltà, mostrando quali legami vitali essa abbia con i Santi della Chiesa Cattolica. Ma sarebbe un discorso che ci porterebbe troppo lontano dall’argomento.

Ritorno al nostro Santo, a S. Giuseppe Calasanzio, il quale ha realizzato la sua santità, in un periodo storico, in cui la provvidenza, per così dire, ha dato un miracoloso esempio della sua onnipotenza creatrice. La Roma del ‘500 era davvero un ricettacolo di Santi; e mentre nei Concili si trovavano le leggi – pur necessarie – per modificare il costume di un mondo che si stava paganizzando, al di là e al di spora delle leggi la santità risplendeva, modificando il mondo paganizzato. La Roma del ‘500, se vogliamo rappresentarla in modo schematicissimo, è polarizzata da due Santi di temperamento veramente opposto, (i Santi no si rassomigliano mai, i mediocri si rassomigliano sempre, perché la santità portando l’uomo al vertice delle umane possibilità attua anche la singolarità umana che trova la propria celebrazione vera nella santità), S. Ignazio di Loyola e S. Filippo Neri, i quali vivono nella Roma del ‘500 portandovi, l’uno l’esempio della sua santità seria, austera e soggiogante, l’altro il guizzo mobile del suo umorismo fiorentino, messo al servizio del Vangelo. L’uno creava un organismo destinato a soccorrere la Chiesa nelle sue estreme necessità, l’altro non amava le organizzazioni, viveva una specie di evangelica anarchia, sorridendo sugli uomini e sulle cose, per circonscriverli dentro quel limite che la nostra serietà umana a volte dimentica. Per essere Santi bisogna capire il limite delle cose, anche delle istituzioni sacre, e anche della gerarchia, che, se si perde il senso di questo limite, noi saremmo dei servili non dei Santi.

Ora la Roma del ‘500 è tutta sorretta da questa duplice santità. L’una non esclude l’altra. Ma si integrano: come nel firmamento le diverse stelle realizzano un’unica armonia ed un’unica gravitazione di forze, così la santità non è mai esclusiva, ma sempre capace di comporsi in complementarità indefinite.

Giuseppe Calasanzio si pone in quello sfondo, con una sua fisionomia caratteristica. Non è un grande organizzatore, lo possiamo dire, non ha la tempra dell’organizzatore. È un Santo umile, dimesso, che fa cose più grandi di lui. L’organizzazione del suo Ordine gli si sviluppa fra le mani al di là delle sue stesse attese, egli è sopraffatto da questa ondata di Provvidenza, che lo prende dal di dentro. La piccola scuola aperta dal Calasanzio in pochissimo tempo si diffuse dovunque, e vedremo poi un perché storico. Fermiamoci per adesso al perché soprannaturale. La sua santità è contraddistinta da una estrema umiltà e semplicità. Non molte volte nelle nostre devozioni falsiamo anche le agiografie e vogliamo mettere piedistalli umani a Santi che non ne hanno mai voluti. Il nostro era un Santo semplice, si poteva trovarlo a spazzar la casa, durante la notte aguzzava le penne dei suoi bambini. Era davvero un prete operaio nel senso autentico del Vangelo.

Viveva nella semplicità somma, non cercava le pompe, non cercava gli appoggi dei potenti, non aveva grandi mire storiche; come l’aveva invece S. Ignazio di Loyola, che spediva i suoi missionari nelle Indie. Era un Santo contraddistinto dalla semplicità. La Sua santità era tutta «ab intus», dal di dentro, ed esteriormente certi suoi avversari potevano anche approfittare di quell’aspetto di semplicità per chiamarlo rimbambito od incapace. La Santità (che cosa ammirabile! è sempre commovente pensarci) è un tesoro non destinato ai grandi, ai potenti, agli intelligenti, a coloro che possono lasciare un’orma esterna sulla storia, ma a tutti, anche ai semplici, anche ai fanciulli. Forse non si è sufficientemente messo in rilievo questo aspetto intimo e puro della santità del Calasanzio. La quale poi consisteva sostanzialmente, come del resto ogni santità, in un’aderenza indefettibile, tenace (il mondo la chiamava cocciutaggine) alla volontà di Dio. Scoperta questa volontà, non in qualche lampeggiamento misterioso, ma in un percorso meandrico attraverso una vita di 40 anni, fino a che nell’anno in cui il Signore lo ispirò, capì quale era la sua vocazione. Quindi Egli non è partito con dentro il cuore un programma già fatto, come un Don Chisciotte della santità. Egli è venuto dalla Spagna, portando dentro il cuore l’umile desiderio che Dio rivelasse la Sua volontà. E il momento in cui egli, vedendo i poveri ragazzi di Trastevere, la intuì; da quel momento, egli fu costantemente fermo nella sua idea; perché era un’idea venuta da Dio.

I Santi hanno questo di caratteristico, che non condizionano la propria fermezza a quelle che sono le vicende del tempo o al criterio, molto empirico e terrestre, del successo da raggiungere. Tutti gli altri uomini della storia devono mirare al successo, e devono quindi condizionare la loro tattica alla mobilità del tempo e degli uomini. Il Santo non se ne cura, perché il successo è già immanente all’idea che essi hanno afferrato, e l’idea che il Calasanzio afferrò e fece sua era quella dell’elevazione cristiana delle classi umili. Torneremo presto sull’argomento; mi basta per ora delineare un altro tratto, perfettamente coerente ai precedenti, della santità del Calasanzio.

Il Calasanzio diventò un innovatore, – se la parola non grondasse di sangue, non fosse falsificata, vorrei dire un rivoluzionario – senza volerlo, e proprio perché non lo voleva, lo fu. I rivoluzionari che vogliono esserlo, – almeno quando si parla di quel Regno di Dio che è l’unico regno che resta, e di quella storia che è l’unica storia che vale – i rivoluzionari che vogliono esserlo, non lo sono, sono già fuori della Chiesa. S. Giuseppe Calasanzio si astenne da ogni gesto a cui pure avrebbe avuto umanamente diritto. Fu bistrattato, messo in prigione, maltrattato in ogni modo; la sua vita è una sequela commovente di sofferenze ingiustamente inflittegli. E dico subito, sebbene rapidamente, perché materia che brucia sulle labbra, sofferenze inflittegli non da nemici di Dio, che sarebbe normale, ma dagli amici di Dio, da coloro che vivono nella Chiesa. Perché nella Chiesa non sono tanto gli uomini che agiscono, ma la Provvidenza che agisce anche attraverso i loro sbagli; e guai all’uomo che crede di non sbagliare! Dio scrive diritto nelle righe storte. E la Provvidenza realizzava i suoi fini attraverso anche le meschinità dei suoi uomini, che a volte perseguitano i Santi in nome di Dio.

E questa pagina della storia del Calasanzio, su cui la nostra delicatezza di cristiani vorrebbe sorvolare, è invece una pagina ricca di significati, perché S. Giuseppe Calasanzio non si ribellò, non cercò avvocati di difesa, accettò la mortificazione in un modo che umanamente si può chiamare stolto. Ed è proprio la famosa stoltezza, di cui parlava Paolo, che vince la sapienza del mondo. È proprio in virtù di questa sua fedeltà umile e silenziosa alla volontà di Dio che la sua fine umanamente fu un fallimento. La sua fine fu il fallimento di un uomo che contempla sul letto di morte la sua grande opera distrutta fin dalle radici. Il grande ordine che era nato da lui, che aveva invaso tutta l’Europa, non era altro che un mucchio di frammenti. Pochi figli superstiti da questa marea di persecuzioni, scatenate nel seno stesso della Chiesa, erano attorno al suo letto. Ed egli disse – e lo poteva dire perché aveva accettato il calice fino in fondo (chi non accetta il calice non può pronunziare parole di così audace speranza) – «Dominus dedit Dominus abstulit, sit nomen Domini benedictum», Iddio mi dette, Iddio mi ha tolto, sia benedetto il nome del Signore. E poi suggerendo un sommesso commento alle grandi parole della Scrittura, disse: «abbiate fiducia, perché l’Ordine nostro risorgerà!». E risorse.

Lo so, non sono qui a fare il panegirico di un Santo, volevo soltanto, adesso, cogliere l’elemento specifico di quella santità. Esso coincide col nostro bisogno di santità, se ne abbiamo. Potremmo anche non averlo o, meglio averlo soffocato, perché si vive per essere Santi e non c’è, come diceva Bloy, altra tristezza che quella di non esserlo. Ma se noi abbiamo la sete di santità, dobbiamo riconoscere che oggi non potremo realizzare la santità grandiosa, la santità che ama la manifestazione. La nostra santità è necessariamente (penso a quanta ne nasce nel mondo oggi) dimessa, nascosta, umile. In tram montano i Santi, al cinematografo vanno i Santi, per le strade passano i Santi, nelle officine ci sono i Santi. Voi dite: «Ma non si vedono le aureole». Aggiungo io: La Chiesa, forse, non potrà mai riconoscerli questi Santi inafferrabili. Ma è questa la santità che fiorisce, è questa la santità che amiamo; è propria della nostra stagione. E il Calasanzio con la sua umiltà, col suo modo dimesso d’esser Santo, col suo modo umile e semplice, è un esempio commovente, a cui dobbiamo riferirci noi, in qualche modo tutti figli suoi, proprio quando abbiamo bisogno di trovare conforto nei nostri fallimenti, nelle nostre interne delusioni e nelle nostre irritazioni troppo umane e poco soprannaturalmente vivificante e decantate. Dobbiamo ripensare a quella figura perché ci suggerisca la pazienza, la rassegnazione, l’attesa, ma non l’attesa prima della morte – «verrà un giorno in cui finalmente avrò soddisfazione!» – no, l’attesa dopo la morte. Bisognerebbe essere disposti a morire falliti, per essere veramente cristiani, altrimenti il nostro Cristianesimo è sempre un’intima componente d’interesse e di terrestrità, di bassezza umana; e allora la nostra santità è apparente ed è ipocrisia. Solo chi è disposto ad essere fallito per amore di Dio è Santo.

Questo germe gettato dalla Provvidenza nella storia fruttificò. Ed ecco la seconda parte del mio discorso, più perigliosa perché mi muovo su un terreno in cui sicuramente non troverò il consenso di tutti. Ma sarei contento se da questa giornata di armonia amichevole qualcuno uscisse con qualche scandalo dentro l’anima, perché a volte è necessario questo scandalo che spezzi il conformismo mentale, e getti il seme di riflessioni forse feconde.

L’opera del Calasanzio si sviluppò storicamente, in un momento in cui la civiltà occidentale stava realizzando, nella concretezza delle istituzioni, l’idea madre del paganesimo moderno, cioè l’idea di Stato. Il paganesimo rinascimentale era semplicemente un paganesimo di costume, rimaneva ancora dentro istituzioni apparentemente cristiane. Anche i più pagani del rinascimento andavano in chiesa. Sappiamo come questa doppia coscienza è per noi un fenomeno incomprensibile e pauroso. Ma quando il paganesimo dal costume sale lentamente ad ammorbare le radici del cuore e dal cuore passa a modificare le strutture dell’intelligenza, allora nasce l’idea; e quando nasce un’idea, il mondo cambia. E l’idea concreta, strumento vero del paganesimo moderno, è l’idea di Stato. Non l’idea di Stato – rettifico e modifico adesso la mia affermazione, – in quanto essa si compone e si iscrive dentro l’ambito del diritto naturale, perché allora l’idea di Stato è semplicemente un’idea strumentale: lo Stato serve a che le fondamentali società della natura, anzi la persona e la famiglia, possano realizzare le proprie immanenti finalità. Ma lo Stato che nasceva ora nella mente di alcuni pensatori e che poi, per un complesso di coincidenze storiche di carattere economico e di carattere culturale, troverà realtà nella geografia europea, è l’idea dello Stato che dirige le coscienze.

Ecco lo statalismo moderno, che con una parabola precisa va dal Seicento al nostro secolo.

Il nostro secolo ci offre l’epilogo sanguinoso di quell’idea, perché lo statalismo cresciuto in una specie di idillio nel Settecento, con l’euforia degli enciclopedisti, che lo tenevano a battesimo, è poi finito nel nostro secolo con le persecuzioni più sanguinose. Nessuno mi potrà negare che queste persecuzioni siano nate proprio dal totalitarismo statale: cioè da un’idea di Stato diventata idea totalitaria per cui lo Stato, organizzazione al servizio della persona, è stato invece ritenuto come l’idolo a cui la persona doveva inchinarsi: lo Stato-Chiesa, lo Stato che pensa a tutto, e finalmente lo Stato che pensa all’educazione. Perché noi abbiamo molte volte paura di essere conseguenziali, ma dobbiamo esserlo. L’idea che il Calasanzio ebbe per la sua scuola era un’idea con due implicazioni: la prima di ordine sociale; l’altra di ordine spirituale-pedagogico. Quella di ordine sociale è, come la società stessa, caduca. L’idea era questa: solleviamo le classi umili, quelle classi che per adesso sono semplicemente ricettacolo del paternalismo dei governanti e dall’elemosina delle persone buone. Solleviamo questa classe, offrendo ad essa quello strumento oggi indispensabile per poter essere, non già membri passivi della società, ma membri attivi: cioè l’istruzione.

Questa idea, nata dalla carità, fu poi fatta sua dallo Stato; e fin qui niente di male perché quasi sempre le istituzioni della giustizia hanno come matrice l’intuizione della carità. Se la nostra civiltà occidentale può mostrare nel suo panorama, abbastanza diroccato, qualcosa che regge, appunto dobbiamo riconoscere che ciò che regge è ciò che ancora è animato da questo spirito iniziale. Spezzate la giustizia dallo spirito di carità, e la giustizia stessa diventa il cappio che ci strozza: summum ius, summa iniuria. È giusto che lo Stato provveda a garantire alla persona umana il diritto primordiale all’istituzione. E questo è un concetto tale che ci consente di riguardare con simpatia le istituzioni successive, che hanno tolto tanto spazio alle Scuole Pie. Era giusto che lo Stato ci pensasse. Lo Stato, questa volta, è andato a scuola da un Santo, senza riconoscere il Maestro, tuttavia. Ma non importa; la lezione è stata appresa, gli umili hanno scuola; sia benedetto Dio! E hanno scuole gratuite; sia benedetto Dio!

Ma è l’altra idea legata a questa, che è di valore immortale e che noi dobbiamo affermare soprattutto: cioè, l’educazione cristiana.

È su questo punto che io mi faccio adesso l’interrogativo a cui accennavo all’inizio: noi dobbiamo semplicemente soccorrere lo Stato? Dobbiamo semplicemente creare ai margini dello Stato una scuola, cosiddetta libera, per garantire allo Stato un po’ di economia, e la presunzione di largheggiare di libertà? No, certo! Ecco il momento equivoco e di compromesso in cui ci troviamo. È un momento di compromesso. Perché secondo una concezione, logicamente irrefutabile, la sorgente prima dell’educazione è la famiglia. E la scuola deve nascere per libera iniziativa delle famiglie. Lo Stato non ha educazioni da impartire; non ha educazioni, perché può dare educazione solo chi ha idee. Lo Stato che idee può avere? Lo Stato non ha idee. Guai se lo Stato rivendicasse delle idee, perché allora ci avviciniamo a quegli Stati, che sono finiti in un mare di sangue, quegli Stati che hanno idee da dare, che hanno un’educazione nazionale da impartire. Dobbiamo combattere questa personificazione, questa ipostasi illegittima di uno Stato che dovrebbe essere semplicemente l’organizzazione per garantire a tutti il necessario benessere e la necessaria libertà.

Allora io penso, – e questo auspicio che mi nasce dal cuore potrebbe essere poco ragionevole – io penso che noi ci avviciniamo a una stagione di libertà piena, anche nell’istruzione. Non è una stagione in cui noi potremo cantare vittoria; tutt’altro, sarà una stagione di duro lavoro, perché l’educazione cristiana non consiste soltanto nell’impartire l’educazione programmata dallo Stato entro ambienti cristiani, consiste nel modificare lo stesso contenuto dell’educazione, consiste nell’acquisire quel nucleo di idee madri da offrire alle coscienze, perché le coscienze possano liberamente acquisire la verità. Lo Stato garantisca la libertà a tutti, alle minoranze, a coloro che non hanno la nostra Fede, ma ci sia lasciata la libertà, ci sia data la possibilità di organizzare gratuitamente le scuole per i cristiani. E noi dovremo avere il grande peso, a cui ci sentiamo quasi inferiori, di avere un tal programma, un tal gruppo di idee, un tal metodo educativo, da dare liberamente alle coscienze la verità di Cristo, così che le coscienze crescano nella libertà sociale, ma con la Fede salda della Rivelazione.

Vi parlavo all’inizio di questa prospettiva dell’avvenire; ecco che ci siamo. Il passato è grande, il Cristianesimo, che non è mai stimolo di rivoluzioni esterne, anche se è l’unica fonte di vere rivoluzioni interne, ha accettato mille compromessi sul piano esteriore: è giusto. Forse molti possono parlare di opportunismo, ma il Cristianesimo ha dei valori eterni che non soffrono l’usura del tempo, e il suo accomodamento ai tempi è consapevolezza della miseria umana e della relatività delle umane istituzioni. Ma certo la situazione attuale è situazione di compromesso. Allora lasciate che io chiuda questo mio povero discorso, guardando l’avvenire e rivolgendomi in particolare ai miei confratelli, ed anche a voi che avete certo un’intima solidarietà col nostro ideale. Questo clima di libertà si affermi sempre di più, non per il gesto rivoluzionario di qualche legislatore (non chiediamo), ma attraverso il mutamento delle coscienze, attraverso una consapevolezza sempre maggiore dell’importanza di un’educazione radicalmente cristiana. Un’educazione, cioè, capace nel contempo di abbracciare la totalità del sapere, e, insieme, di animarlo dall’intimo con l’unità di un’idea, che è l’idea dell’Incarnazione.

È questo l’auspicio che può, agli occhi di qualcuno, sembrare auspicio di un veggente, ma, miei cari, non appena prendiamo come punto di prospettiva, non la zolla del quotidiano in cui stiamo posti, ma invece il pinnacolo della Chiesa e della Fede, noi sappiamo che questo tempo viene. Ci sono tanti segni, e un segno doloroso, ma pur esso ricco di significato, è anche il molto sangue sparso per la difesa della libertà nell’educazione proprio da molti nostri confratelli, là dove lo Stato ha raggiunto la più sfrenata celebrazione della propria onnipotenza. Anche quei martiri sono importanti.

Noi ringraziamo Dio anche perché ci dà dei martiri, e raccogliamo dal loro sangue proprio questa speranza, che finalmente gli uomini abbattano i loro idoli, e l’idolo degli idoli che è l’onnipotenza dello Stato, e restituiscano a tutti la piena libertà.

Allora, il nome del Calasanzio, che ora vive nel nostro cuore e nella nostra umile devozione, dovrà risplendere ancora di più nel firmamento della storia umana.

[1] Nel ciclo delle manifestazioni celebrative del IV Centenario della Nascita di S. Giuseppe Calasanzio si tenne in Alatri – 15 Settembre 1957 -  il II CONVEGNO degli Ex-Allievi del Collegio Conti-Gentili. Il p. Balducci per l’occasione pronunciò nell’aula Magna il discorso ufficiale che qui si riproduce, così come fu ripreso dalle sue labbra.
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